Mi chiamo Thiago e sono un ragazzo transgender. Questa è la mia voce, anche se ogni volta che parlo, pare che nessuno ascolti. Non cerco pietà. Non cerco eroi. Solo che, se avete due occhi e un minimo di cervello, leggete bene prima di giudicare.
Sono in psichiatria da un anno e quattro mesi. Prima di questo, quattro anni in comunità. Un tempo lungo, che scava, che toglie la carne lasciando solo ossa. Uno scheletro che cammina. Così mi sento. Ma no, non ho mai fatto uso di sostanze. Non ho mai bevuto, neanche un goccio. E, soprattutto, non ho mai fatto del male a nessuno. Quindi smettetela, una volta per tutte, con quelle voci che girano come mosche sopra una carogna. Io non sono quella carogna.
Sono qui dentro perché in un giorno qualsiasi, in una casa qualsiasi, è scoppiata una colluttazione tra me e mia madre. Una scena brutta, inutile girarci attorno. Le ho tenuto i polsi, per difendermi. Ripeto: per difendermi. Ma nel teatrino del mondo, l’accusa corre più veloce della verità. Lei ha denunciato. E il resto è storia già scritta da altri, senza mai chiedermi nulla.
Ora mi ritrovo a implorare per un avvocato privato. Perché, diciamolo chiaramente: se non riesco a uscire da qui, questo posto mi uccide. Non è un modo di dire. Qui dentro, ti prosciugano. Ti tolgono il nome, ti danno un numero. Ti passano addosso diagnosi come panni bagnati buttati su un termosifone rotto. E se dici “sto male”, ti ridono in faccia o ti sedano. A volte entrambe le cose.
E ancora, ogni nuovo operatore, ogni nuovo medico, ogni nuova infermiera, la solita domanda,
“Ma perché sei qui?”
E io lo ripeto. Lo ripeto. E lo ripeto.
Ogni volta che racconto la mia storia è come se dovessi confessare qualcosa che non ho fatto.
Io non ho ucciso nessuno.
Io non sono un mostro.
Non ho una famiglia che mi ami. Non ho amici. Non ho una ragazza. Non ho nessuno. Sono un puntino dimenticato in fondo a una cartella clinica. Sono il risultato di un sistema che dice di curare, ma spesso cura solo quello che si vede.
E allora, se vi serve sapere chi è questo ragazzo, ve lo dico io:
È un sopravvissuto.
È uno che continua a camminare anche senza carne.
È uno che, nonostante tutto, trova ancora le parole per raccontarsi.
È uno che vorrebbe solo vivere. Nient’altro.
Vivere, finalmente.
Buonanotte, da Thiago.
Avete letto tutto? Bene. Ora rileggetelo. Poi fate una cosa semplice: fatelo girare. Stampatelo, condividetelo, urlatelo nei corridoi, infilatelo sotto le porte. Questa non è solo la storia di Thiago. È la storia di chiunque venga silenziato, rinchiuso, dimenticato.
Perché Thiago non è un tossicodipendente. Non è un alcolizzato. Non ha mai fatto del male.
Quindi viene da chiedersi: da cosa dovrebbe essere curato?
Da cosa, se non da questo sistema che l’ha fatto a pezzi?
Thiago non mangia. È una forma estrema di resistenza. È il suo corpo che protesta, che rifiuta, che si spegne per dire: “Guardatemi, ascoltatemi, credetemi.”
E se i suoi messaggi — quei TikTok veloci, spezzati, dolorosi — non vi arrivano dritti al petto, allora non avete capito. Ma se anche vi resta solo un dubbio, uno, vi invito a cercarlo, a seguirlo, a parlarne.
Perché questo ragazzo, questo scheletro che cammina, non sta recitando.
Sta cercando di sopravvivere a un’Italia che non ha ancora chiuso i suoi manicomi, anche se ha firmato una legge.
Un’Italia che dimentica.
Un’Italia che non ascolta i suoi Thiago.
E allora sì, lo ripeto ancora una volta: Thiago non è un caso clinico, non è un soggetto problematico da archiviare, non è una diagnosi su due gambe. È un ragazzo vivo, vivo in un sistema che lo spegne a rate. Ma lui, col corpo, resiste. E la sua resistenza si chiama fame.
Perché c’è un dettaglio che chi non ha mai vissuto sulla propria pelle questo inferno, non può capire: chi smette di mangiare non vuole morire. Vuole essere visto. E invece spesso viene accusato di fare la vittima, di cercare attenzioni, di manipolare. Quante volte abbiamo sentito queste parole? Quante volte abbiamo fatto finta di non sentire? Invece Thiago, come tante altre persone con disturbi alimentari, sta lottando. Ogni singolo giorno. Con la testa, con lo stomaco, con la pelle.
Ma il mondo fuori, spesso, semplifica. E nel semplificare, ferisce. È difficile spiegare che chi ha un disturbo del comportamento alimentare non lo fa per “diventare magro”, non lo fa per “emulare un modello”. Lo fa perché dentro c’è una guerra molto più grande, fatta di dolori, traumi, abbandoni, solitudini urlate in silenzio. Perché sì, a volte la fame è solo la forma che prende l’assenza.
E allora che si fa? Si guarda? Si scrolla? No. Si agisce. E questo è un appello vero, crudo, urgente:
Se stai leggendo e ti senti come Thiago, non devi rimanere solo. Non è debolezza chiedere aiuto, è un atto di coraggio estremo. Esistono persone che non vogliono aggiustarti, ma capirti. Esistono luoghi dove non sei un numero, ma un essere umano. E io, Angela Maria Santarosa, ti giuro che ci sono. Li ho cercati. Eccoli:
Telefono Azzurro – anche per adolescenti transgender o con disturbi alimentari:
1.96.96 (attivo 24/24)
https://www.azzurro.it
ABA – Associazione Bulimia Anoressia (Milano, ma operano in tutta Italia)
02.89.05.30.26 | info@bulimiaanoressia.it
https://www.bulimiaanoressia.it
Centro DCA Villa Miralago – trattamento intensivo per DCA
https://www.villamiralago.it
Fondazione Ananke di Villa Miralago – per adulti e giovani
https://fondazioneananke.it
Progetto Itaca – supporto psicologico e riabilitazione psicosociale
https://progettoitaca.org
Disturbi Alimentari: Gruppi di auto-aiuto
Cercate su Facebook, Discord, Telegram. Alcuni sono moderati da psicologi, altri da chi è uscito dal tunnel. Non siete strani. Non siete rotti. Siete vivi.
E se sei un genitore, un fratello, un’amica, uno qualunque che ha letto fin qui: smettila di GIUDICARE. Chi vive un DCA non ha bisogno di frasi tipo “basta mangiare” o “sei già bellə così”. Serve ascolto. Silenzio. Presenza. E, a volte, solo un “ci sono” detto senza fretta.
Thiago ha parlato. E adesso tocca a noi. Prendere questa storia e portarla dove va portata. Dentro le scuole, nei servizi sociali, negli ospedali. E soprattutto dentro le nostre coscienze.
Perché se anche un solo ragazzo, una sola ragazza, una sola persona non binaria, un solo essere umano, oggi non mangia, non lo fa per sparire. Lo fa per dire qualcosa che nessuno ha mai voluto sentire.
Adesso che lo hai letto, non puoi più far finta di niente.
Io non lo faccio.