Milo aveva un viso fermo, come certi laghi d’inverno.
Occhi grandi, grigi, pieni di parole non dette.
La bocca sempre leggermente aperta, come se stesse per dire qualcosa
ma poi ci ripensasse.
Aveva i capelli fini, disordinati, che sembravano disegnati da un bambino distratto.
Camminava piano.
Non perché fosse timido,
ma perché ascoltava il rumore dei propri passi.
Ogni tanto si fermava all’improvviso.
In mezzo alla classe. Al corridoio. Alla vita.
E restava lì, immobile, come se stesse cercando dove mettersi per essere visto davvero.
La sua voce era bassa, sfregata.
Come se ogni parola dovesse attraversare un cancello arrugginito.
Quando parlava, le frasi uscivano incerte, ma precise.
Una volta disse:
“Anche i muri ascoltano, solo che non sanno rispondere.”
E poi non parlò più per tutto il giorno.
Nessuno lo capiva.
Tutti lo ignoravano.
Tutti tranne il maestro.
Il maestro arrivò in ottobre.
Entrò in classe con un maglione di lana consumato,
che odorava di bosco, di legno bagnato, di pipe spente.
Aveva una barba irregolare, mani sporche di grafite,
e occhi che ti guardavano come se stessero cercando la tua vera voce sotto la pelle.
La sua voce era calda e rotta.
Non forte. Ma neanche debole.
Parlava come chi ha attraversato troppi silenzi e ha deciso di restare gentile.
I bambini si zittivano non per paura,
ma per necessità di capire da dove veniva quell’odore di verità.
Aveva un modo strano di muoversi:
sembrava sempre sul punto di andare via,
ma restava.
Con le spalle un po’ curve, come se portasse il peso delle parole che gli altri non dicono mai.
Milo lo osservava.
All’inizio con diffidenza.
Poi con fame.
Un giorno il maestro gli chiese, senza preavviso:
“Che rumore ha il cielo quando nessuno lo guarda?”
Milo non seppe rispondere.
Ma quella notte non dormì.
Uscì sul balcone.
Restò lì, fermo,
aspettando che il cielo gli parlasse.
E lo fece.
Da quel giorno, Milo cominciò a sentire tutto.
Sentì il peso delle mani che non si stringono.
Il suono della vergogna.
La voce rotta di un compagno che fingeva di ridere.
Sentì la rabbia sotto la pelle dei grandi.
Sentì la fame d’amore che cammina nei corridoi delle scuole.
Sentì i graffi di ogni bambino inascoltato.
E sentì che il maestro non era lì per insegnare,
ma per restituire il suono alle cose che il mondo aveva fatto tacere.
A te che stai leggendo.
Sì, proprio tu.
Tu che hai passato la vita a rispondere invece che ascoltare.
Tu che hai scambiato l’autorità per presenza.
Tu che hai detto “so io cosa è meglio” mentre un bambino si chiudeva come una scatola.
Tu che non sai più ascoltare un respiro,
un pianto trattenuto,
un silenzio che pesa più di mille urla.
Tu che guardi il cielo solo quando piove.
Tu che pensi di sapere tutto,
e non sai più leggere nemmeno uno sguardo.
Tu che credi che i bambini siano piccoli.
Ti sbagli.
I bambini sono enormi.
È che non li vedi più.
Tu che leggi e non capisci.
Che scorri parole come fossero oggetti.
Che non senti più nemmeno te stesso.
Sai cosa sei?
Sei rumore.
E sai cosa fa il rumore quando arriva qualcuno come Milo?
Tace.
Perché chi ascolta davvero
non ha bisogno di parlare.
Non ha bisogno di spiegare.
Non ha bisogno di convincere.
Chi ascolta è ascoltato
E tu?
Ascolti?