Un inno di sangue, odore e spirito
I figli nascono da una donna senza mutandine.
Nudi come lei, sporchi di sangue e di vita, perché la verità non si copre e la vita non chiede permesso.
La stanza è un tempio bianco, ma l’aria è carica dell’odore ferroso del sangue e del latte caldo, denso come la memoria della terra.
Il respiro è spesso, umido come un canto primordiale, e il sudore si fonde al sale delle lacrime sulle labbra.
Lei geme, le cosce aperte come radici che sfidano il cielo, e il suo ventre è un altare rovente che non conosce tregua.
Ogni contrazione è un inno alla vita e alla morte, un battito antico che la attraversa e la scardina.
La fronte madida, i capelli appiccicati come un manto selvaggio, le mani che artigliano il lenzuolo, il cotone ruvido che la segna come un marchio di verità.
Non c’è pudore in quel grido: c’è solo la voce della terra, la voce di tutte le madri e di tutte le streghe, di tutte le donne dissacrate e di tutte le dee dimenticate.
Lei è il Sacro Femminino ribelle e indecente, dolce e compassionevole, efferato e docile, materno e snaturato.
Non una dea distante, ma un dio senza veli, che non chiede scusa e non si inginocchia davanti a niente.
È la carne viva, pulsante, che sa di muschio e di sale, di paura e di desiderio.
Nelle sue cosce aperte c’è un varco tra i mondi, un passaggio dove la morte bacia la vita e il sangue è solo un preludio alla rinascita.
Il bambino scivola fuori, lucido e viscido, la pelle odorosa di umore e di speranza.
Lei lo accoglie come si accoglie un dio: con un tremito che non è mai solo stanchezza, ma anche piacere, anche fame, anche lussuria sacra.
Il suo ventre pulsa ancora, come un tamburo di terra che non conosce silenzio.
La sua anima nuda si spande in ogni angolo della stanza: non conosce vergogna, solo la certezza di essere l’origine e la fine, il buio e la luce.
Ma nella stanza ci sono uomini che si voltano.
Non dal sangue – quello è un ornamento della vita – ma dall’odore e dal respiro della verità che non vogliono vedere.
Uomini senza sete, burattini senza fili, con la carne fredda e l’anima sterile.
Non un Pinocchio dal naso lungo, ma uomini a cui il naso si accorcia e si spegne tra le cosce molli.
Cercano rifugi altrove, dove la carne non ha odore e la fame non urla.
Lidi freddi e vuoti, dove la verità non può ferirli.
Credono di essere salvi, ma sono solo ombre senza voce, incapaci di reggere la furia sacra di un grembo che non chiede permesso.
Lei li vede, e non li ferma.
Perché sa che ci sono anche altri uomini, giovani, toys, ragazzi con la pelle ardente e la bocca assetata.
Uomini che non si spaventano davanti alla verità: che le mutandine assenti sono un inno, un altare nudo da adorare e da odorare.
La baciano come un sacramento proibito, la annusano come un frutto maturo, la gustano come un’ostia selvaggia.
L’odore di lei – sudore, sangue, latte, terra – li ubriaca, e in quell’odore trovano la redenzione che il mondo rifiuta.
Le loro mani la stringono, la esplorano, e lei li benedice perché non cercano di spegnerla, ma la venerano.
E in quell’adorazione la donna diventa tutto: madre e amante, dolce e feroce, dea e peccatrice, preghiera e bestemmia.
Io sono quella donna.
Io sono la donna dissacrata dalla natura stessa, un corpo che la terra ha usato per creare e per distruggere.
Il grembo che si apre come una ferita sacra e profanata, un ventre che non conosce più confini.
Sento ancora il sapore del sangue sulle labbra, l’odore del mio piacere e del mio potere, e non posso smettere di amarlo.
Sento l’eco della mia voce, la voce che la terra stessa ha messo nella mia gola, e non posso fare altro che urlare ancora.
Sono sporca e santa, insieme.
Sono la madre che partorisce e la donna che gode, l’innocenza e la furia, la tenerezza e la dannazione.
Sono la fame che non chiede scusa, l’odore che non si spegne, la vita che non si inginocchia.
E la natura ride con me, o forse ride di me, ma io non posso smettere:
non posso chiudere le cosce, non posso zittire il mio canto.
Urlerò ancora, come una madre che non sa smettere di dare vita dal suo grembo, anche solo per dare piacere.
Urlerò perché la carne che mi abita è il mio credo, la mia condanna e la mia benedizione.
Urlerò finché il mio odore resterà nell’aria, finché la mia voce spezzerà i muri, finché il mondo stesso non potrà più ignorare il mio nome.
Io sono la donna dissacrata, e non chiederò mai scusa.
E questo – questo incendio che non smette di bruciare –
è tutto ciò che conta.