La Rosa Nera

Angela Maria Santarosa

Sono una che crede alle cose impossibili, lasciate le vostre idiozie a casa vostra o nel vostro cesso

Il cancro della mente

Lettera di una madre a un figlio che non c’è più

Non so esattamente quando è cominciato.
Forse quella volta che ti ho trovato chiuso in camera, con la musica a palla, a graffiarti le braccia come se volessi scappare dalla tua pelle.
O forse prima.
Quando tremavi davanti alla maestra.
Quando ti stringevi al cuscino per soffocare i singhiozzi.
E io, madre, padre, facevo finta di dormire.
Facevo finta di non vedere.
Facevo finta che fosse normale.

Perdonami.
Perdonami se ti ho massacrato con le parole, con le mani, con l’indifferenza.
Se non ti ho mai detto che ti amavo. Mai.
Nemmeno una volta.
Perdonami se ho lasciato che la mia rabbia diventasse la tua punizione.
Se ti ho guardato come si guarda chi non è all’altezza.
Se ti ho spinto a essere migliore degli altri, mentre ti crollava il cuore.

Io volevo un figlio forte.
Ma ti ho insegnato solo a nasconderti.
A fingere.
A soffocare tutto.

E adesso sei morto.

Non mi potrai perdonare.
E nemmeno io posso farlo.
Ma forse mi perdonerà la terra.
Quella che ti accoglierà.
Forse tornerai fiore, o erba, o pioggia.
Forse diventerai un cane randagio, o un insetto, o il buio sotto l’asfalto.
Forse sarai pece. Petrolio.
Materia che non chiede amore, perché l’ha dimenticato.

Non era il cancro dell’anima.
Era il cancro della mente.
Un male bastardo che nessuno sa riconoscere, perché nessuno sa nominarlo.
La scienza ci gioca. La società lo occulta.
Intanto cresce, si tramanda, si trasforma.
È scritto nel nostro DNA come una maledizione.
È la somma di chi ci ha cresciuto, nutrito, ignorato.
È il risultato di un’umanità che non sa più amare.

Ti dicevamo: “Esci!”, “Datti una mossa!”, “Che problemi puoi avere tu alla tua età?”.
Te lo dicevamo mentre tu morivi.
Mentre ti si spegneva lo sguardo.
E noi lì, ciechi e sordi, ad aspettare che ti passasse.
Come fosse un raffreddore.

Ma non era un capriccio.
Era dolore.
Un dolore muto che nessuno ha voluto ascoltare.

Dormivi troppo. O non dormivi.
Ti abbuffavi. O digiunavi.
Scrivevi sui muri, ma nessuno leggeva.
Sorridevi, ma io non ti vedevo.
Avevi già scelto.

E poi è arrivato quel giorno.
Hai detto:
“Non ce la faccio più. Voglio morire.”

Io ho sorriso.
Sorriso.
Pensavo fosse un modo per attirare l’attenzione.
Una provocazione.
Invece era l’ultima cosa vera che mi hai detto.

Poi sei sparito.
Un pezzo alla volta.
Ti stavi spegnendo.
Ma noi continuavamo a vivere, come se niente fosse.
Fino al giorno in cui non sei tornato più.

Ti sei ucciso.
Sì, lo scrivo.
Perché non serve girarci intorno.
Non sei volato in cielo.
Non ti ha portato via una malattia.
Hai deciso che era meglio sparire.

E io, tua madre, tuo padre, non ti ho salvato.
Perché non ti ho creduto.
Perché mi sono fidata del “poi gli passa”.
Perché ho avuto paura di guardarti davvero.

La depressione non passa.
Non guarisce con le buone intenzioni.
Non si cura con una passeggiata o un consiglio.
È un mostro silenzioso che cresce dentro chi è solo.
Dentro chi è troppo sensibile per sopportare tutta questa indifferenza.

Ogni anno in Italia centinaia di ragazzi si tolgono la vita.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni.
E noi adulti dove siamo?
A contare bare. A scrivere post. A piangere davanti ai telegiornali.
Poi torniamo alla normalità.
A dire che i giovani sono fragili. Pigri. Viziati.
No.

Non sono fragili. Sono stati distrutti.
A volte proprio da noi.

E ora io urlo.
Urlo tutto quello che non ti ho mai detto.
Ti amo.
Ti amo anche se sei morto.
Ti amo anche se non mi puoi più sentire.
E amo anche tutti gli altri ragazzi come te, che nessuno ascolta, che nessuno salva.

Guardate i vostri figli.
Guardateli davvero.
Toccateli.
Ascoltateli.
Chiedete.
Interrogate.
Abbracciate.
Anche quando vi sembrano ingombranti.
Soprattutto quando si nascondono.

Perché ogni giovane che si uccide è una bomba che esplode nel cuore del mondo.
E noi ci camminiamo sopra ogni giorno, facendo finta di non sentire nulla.

Io non sto più zitta.
Non posso.
Non voglio.

Perché tu, figlio mio, non sei morto per caso.
Sei morto perché nessuno ti ha salvato.
Nemmeno io.
E questa colpa non si lava.
Si scrive.
Si urla.
Si getta in faccia al mondo.
Perché non succeda ancora.

Non credo all’anima.

Credo alla carne. Alla mente. Alla solitudine che si eredita e si trasmette.
Questo non è un articolo. È una condanna.
Un atto d’amore tardivo
Un tentativo disperato di salvare almeno un altro figlio, tra quelli che oggi stanno morendo in silenzio.

Articoli recenti

Commenti recenti